Tradizioni natalizie milanesi


Le tradizioni natalizie milanesi: un dolce sguardo al passato 

Ricordi evocati dallo sguardo della memoria, in una Milano, città sempre più internazionale, lanciata verso il futuro. Ma in questo periodo delle festività natalizie è dolce il ricordo delle tradizioni della milanesità.

La Fiera degli Oh Bej! Oh Bej!
Già nel 1288 si hanno notizie di una manifestazione organizzata in onore di sant’Ambrogio, nella zona dell’antica Santa Maria Maggiore, la cosiddetta Cattedrale invernale.
La forma attuale nasce da un episodio risalente al 1510, l’arrivo in città di Giannetto Castiglione, incaricato da Papa Pio IV di riaccendere la devozione e la fede verso i Santi da parte dei cittadini milanesi. Temendo di non essere accolto con favore dalla popolazione, che non nutriva grandi simpatie per il papa, fece preparare un gran numero di pacchi pieni di dolci e giocattoli per i bambini e li distribuì alla folla che seguiva il corteo. Castiglione raggiunse, infine, la Basilica di Sant’Ambrogio attorniato da una folla festante. Il nome della odierna fiera deriva proprio dalle esclamazioni di gioia dei bambini, che con l’espressione lombarda “Oh bej! Oh bej!” (in italiano “Oh, che belli!”) accolse i doni del messo papale.Da allora si cominciò ad organizzare, in questo stesso periodo, una fiera in cui si vendevano non solo abiti e oggetti, ma soprattutto prodotti tipici dell’epoca, come mostarde, castagnaccio e i cosiddetti firòn offerti dai fironàtt, castagne affumicate al forno, bagnate con vino bianco e infilate in lunghi spaghi. Mille bancarelle, odori intensi, profumi, in “mezz al baccan de la fera”, i croccanti, la frutta secca, il torrone. Fra i tanti giocattoli, la piccola bancarella con accanto l’uomo che vende la meraviglia delle palle di vetro con all’interno un minuscolo Duomo, o una fata, o due gnomi, o Babbo Natale con la slitta: basta scuoterle appena e la neve riempie la palla di vetro, per andarsi poi a posare lentamente sul fondo.

Il pranzo di Natale: la mattina del 25 dicembre gli androni e le scale delle case milanesi si riempiono dei profumi speciali delle tante portate che compongono il pranzo di Natale. E a tavola, qualche ora più tardi, si riassaporano ricette tramandate di generazione in generazione, la tradizione della lenta cottura della cucina milanese conservata nei quaderni antichi delle famiglie. L’antipasto con i salumi, la giardiniera, il patè di fegato di vitello in gelatina, i nervitt in insalata. A seguire i ravioli in brodo e il re dei secondi piatti, il cappone, oppure el biancustà accompagnato dalla mostarda e dal contorno doppio di purè e spinaci al burro. Un pranzo che richiede tempo, cura, pazienza, così da celebrare degnamente, anche a tavola, la più importante festività che si conclude con la tradizione più significativa di Milano, diventata nazionale: il Panettone.

Ludovico il Moro, Cecilia Gallerani, Toni il garzone, un dolce bruciato, tutti protagonisti del Natale del 1495. Una storia d’amore che darà il privilegio a Milano di un dolce natalizio assolutamente speciale. Con un bicchierino di alchermes, il liquore fatto in casa: “Si compera dal fondeghèe (il droghiere) una bottiglia di spirito e una bottiglietta particolare, con una decorazione tutta intorno di vetro più spesso e un buscion (turacciolo) di legno; si mescola tutto assieme e si lascia riposare per quindici giorni; poi si filtra ed ecco fatto”. I milanesi vanno fierissimi del dolce per eccellenza delle festività natalizie! Vi avevamo già raccontato le sue origini: la sera della Vigilia era tradizione preparare tre grandi pani da dividere con i familiari. Il nome deriva dalla leggenda di Toni, garzone alla corte di Ludovico il Moro, che inventò un pane di frumento, con burro, canditi e uvetta per rimediare a un errore del cuoco che aveva bruciato il dolce destinato al banchetto natalizio. La sua creazione fu così apprezzata che prese il suo nome: il pan del Toni. Curiosità: il panettone aperto a Natale non viene consumato per intero, ma se ne avanza una fetta per il giorno di San Biagio, il 3 febbraio. Il santo protettore della gola conferirà al dolce poteri taumaturgici che preserveranno la salute delle vie respiratorie per il resto dell’anno.

L’Epifania: l'icredibile storia dei Re Magi, il mito fra storia e leggenda e di come finirono nella chiesa di S. Eustorgio a Milano. 
Sono le ultime tre statuine a entrare nel presepe, puntualmente il 6 gennaio: Melchiorre, Baldassarre e Gaspare, i re magi, venuti da Oriente seguendo una stella. Hanno abiti sfarzosi, corone scintillanti, cammelli e doni esotici: in mezzo ai semplici pastorelli e artigiani radunati intorno alla grotta, danno un tocco glamour all’insieme.
Il corteo dei Magi, una delle più antiche tradizioni di Milano. Nella sua forma più moderna, che risale agli anni Sessanta del Novecento, il 6 gennaio, i figuranti il corteo partono da Piazza del Duomo alla volta della Basilica di Sant’Eustorgio, percorrendo via Torino, le Colonne di San Lorenzo, corso di Porta Ticinese infine piazza Sant’Eustorgio; ì Magi, il vessillifero che porta la Stella Cometa, i sei Gonfaloni delle Porte storiche della città: Orientale, Romana, Comasina, Vercellina, Ticinese, Nuova. E ancora le dame, i cavalieri, i dignitari, i popolani, i pastori, accompagnati tutti dal suono potente e festoso delle campane del campanile che è il più alto di Milano, l’unico sulla cui punta non c’è la croce, al suo posto la stella di luce a otto punte, simbolo della stupefacente notte di Betlemme. Questa secolare devozione si fonda su un episodio risalente al IV secolo, secondo cui il vescovo Eustorgio trasportò i resti dei tre Re Magi da Costantinopoli a Milano. Le reliquie dei Re, da allora,  si trovano in un'urna di bronzo nella Basilica di Sant'Eustorgio collocata sopra l'altare loro dedicato. La stella a otto punte sulla torre campanaria della basilica richiama proprio la cometa che ha guidato i tre re alla grotta di Betlemme. Il corteo dei Magi a Milano è attestato fin dal Medioevo: ne parla anche il cronachista milanese Galvano Fiamma, un frate domenicano vissuto a cavallo tra il Duecento e il Trecento. Solo poche volte nella storia il corteo non si è tenuto: oltre al 2021 anche nel 1576 a causa della peste.

Per concludere qualche detto dicembrino in milanese:
- Someneri desembrin el var nanca trii quattrin. Per indicare che seminare in questo mese è tempo e fatica sprecata.
- El sett l'è Sant Ambroeus. Grande festa di Milano e dei milanesi. È quasi obbligatorio visitare la Basilica di Sant'Ambrogio, così come andare alla fera di "Oh bei! Oh bei!"
- El tredes santa Luzia l'è el dì pù curt che ghe sia. Detto conosciuto in tutta la nostra penisola, tuttavia il giorno più corto che ci sia, nel nostro emisfero boreale, è il 21 dicembre al solstizio d'inverno, il 13 lo era sino all'istituzione del calendario gregoriano nel 1582.
- El ventitrii l'è l'antavegilia de Natal cioè l'antivigilia di Natale, giorno che vede i pussée pigher a corr per comprà i regall.
- El ventiquatter la vegilia de Natal. Da secoli si può dire che per i milanesi, e non solo, era un grande giorno di festa perché ci si riuniva tutti nella casa paterna. Per cena si mangiava la "bisetta", ossia l'anguilla marinata, con l'intento legato al simbolismo dell'anguilla di sapersi destreggiare nelle eventuali grane che potevano capitare.
- El venticinqu Natal. Bonn fest a tucc! Bonn fest e bon Natal e bòna carna de animal. Il detto risale ai tempi magri in cui la carne la si mangiava solo nelle grandi feste. Il pranzo di Natale iniziava nel tardo pomeriggio e si protraeva per lungo tempo. Il menù prevedeva el cappon (il cappone), i fasoeu e la mostarda e l'immancabile panettone. Di questo se ne doveva conservare una fetta che veniva mangiata ail 3 febbraio per la festa di S. Biagio, protettore del mal di gola.
- El trentun fin de l'ann, con il relativo zenon – il cenone – con zampett e lenti, ovvero zampone e lenticchie. Simbolicamente lo zampone rappresenta la zampa-mano che arraffa le monete, rappresentate dalle lenticchie. Difatti si consiglia di mangiare proprio le lenticchie come augurio e auspicio di denaro in arrivo.
- Bon prenzippi e bòna fin e bòna carna de pollin.Tradotto: buon principio e buona fine guastandosi una buona carne di tacchino. Perché proprio il tacchino? Simbolicamente esso rappresenta l'energia procreativa maschile e la fertilità femminile, infatti, era offerto in sacrificio nelle cerimonie di fertilità presso gli indigeni americani.

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